Quando lo scandalo diventa spettacolo e le vittime rischiano di trasformarsi in colpevoli

C’è un momento preciso in cui un caso mediatico smette di essere un fatto da accertare e diventa un racconto collettivo incontrollabile. È il punto in cui la verità non è ancora stata stabilita, ma le responsabilità sembrano già decise. È lì che si colloca il cosiddetto “caso Signorini”, esploso dopo le rivelazioni di Fabrizio Corona nel suo format Falsissimo e trasformatosi, nel giro di pochi giorni, in una macchina di esposizione totale: nomi, screenshot, allusioni, video, reazioni a catena, silenzi che diventano prove, smentite che suonano come ammissioni.

Al centro del racconto, secondo Corona, ci sarebbe un presunto sistema di potere legato al mondo del Grande Fratello e ai suoi meccanismi di selezione, con Alfonso Signorini indicato come figura cardine. Accuse gravi, che chiamano in causa dinamiche delicate: il rapporto tra potere e desiderio, tra carriera e consenso, tra esposizione mediatica e vulnerabilità personale. Ma mentre l’opinione pubblica si divide tra chi chiede giustizia e chi invoca prudenza, un altro fenomeno avanza con violenza silenziosa: la gogna mediatica, che rischia di ribaltare i ruoli, trasformando le presunte vittime in colpevoli per il solo fatto di essere esposte.

I protagonisti e il peso del potere

Alfonso Signorini non è solo un conduttore televisivo. È, da oltre vent’anni, uno degli uomini più influenti del sistema mediatico italiano legato al gossip e all’intrattenimento. Giornalista, scrittore, per lungo tempo direttore del settimanale Chi, Signorini ha incarnato una forma di potere editoriale che va oltre lo schermo: decide narrazioni, legittima personaggi, costruisce e distrugge carriere. È esattamente questo ruolo che rende le accuse così esplosive e, allo stesso tempo, così difficili da maneggiare senza scivolare nel processo sommario.

Fabrizio Corona, dall’altra parte, è una figura che vive di fratture. Ex re dei paparazzi, protagonista di una lunga e complessa vicenda giudiziaria, Corona ha trasformato la sua marginalità dal sistema ufficiale in una posizione di attacco permanente. Falsissimo non è solo un format: è un tribunale parallelo, dove l’accusatore coincide con il narratore, il giudice e il montatore del racconto. È qui che nasce la domanda cruciale: quando la denuncia diventa spettacolo, chi tutela davvero la verità?

Nel mezzo, figure come Antonio Medugno — indicato come il “caso zero” — e altri nomi evocati o trascinati nella narrazione, spesso giovani, spesso con una carriera fragile, spesso senza gli strumenti per reggere un’esposizione così violenta. Le loro dichiarazioni, i silenzi, i messaggi privati estrapolati dal contesto diventano materiale pubblico, analizzato, giudicato, deformato.

La gogna come dispositivo narrativo

La gogna mediatica non è più quella medievale fatta di piazze e catene. È digitale, veloce, irreversibile. Funziona per accumulo: uno screenshot chiama un commento, il commento genera un video reaction, il video diventa meme, il meme sentenza. In questo processo, la complessità viene espulsa. Non c’è spazio per il dubbio, per il tempo dell’indagine, per il diritto alla difesa o, paradossalmente, per la protezione delle stesse presunte vittime.

A rendere questa gogna ancora più problematica è la scelta — confermata e criticata anche da Selvaggia Lucarelli — di collocare parte dei contenuti più espliciti, come video e materiali “di prova”, all’interno di una sezione riservata agli abbonati. Una dinamica che sposta definitivamente l’asse dalla denuncia alla fruizione voyeuristica. Non si tratta più di informare, ma di far assistere. Di monetizzare l’accesso a un’intimità che, vera o presunta, viene esposta come merce.

La domanda, allora, diventa inevitabile: siamo di fronte a un’esigenza giornalistica o al desiderio perverso di guardare ciò che dovrebbe restare tutelato? E dove finisce l’interesse pubblico e dove inizia una forma mascherata di revenge porn, anche quando viene giustificata dalla retorica della “verità”?

Il punto più inquietante è che, in questa dinamica, l’esposizione non colpisce davvero il potere ma chi ne è rimasto ai margini. Giovani, spesso con carriere fragili, diventano oggetto di un racconto che non mira a proteggerli ma a mostrarli. La vittima non è più tale se il suo corpo, la sua sessualità o la sua intimità diventano “contenuto”. Ed è qui che la gogna compie il suo capolavoro più crudele: ribaltare la posizione morale dei soggetti coinvolti, trasformando chi subisce l’esposizione in complice del proprio linciaggio.

Sessualità come arma: il sottotesto che nessuno vuole nominare

C’è poi un ulteriore livello, raramente nominato ma chiaramente percepibile: quello culturale. In questa vicenda affiora un sottotesto omofobo che non può essere ignorato. Allusioni spinte, ironie insistite, riferimenti a pratiche sessuali usati come strumenti di derisione non colpiscono solo i singoli individui, ma una cultura intera.

La sessualità omosessuale viene raccontata non come esperienza umana, ma come elemento scandalistico, ridicolizzante, quasi patologico. È un linguaggio che non denuncia il potere, ma lo rafforza, perché utilizza stereotipi antichi per umiliare, insinuare, spettacolarizzare. Quando la sessualità diventa un’arma retorica, il confine tra critica e discriminazione viene superato senza nemmeno accorgersene.

Ed è qui che la gogna smette di essere solo mediatica e diventa simbolica: non colpisce più soltanto le persone coinvolte, ma manda un messaggio a tutti. Esporsi significa rischiare di essere ridicolizzati, sezionati, consumati.

Il silenzio istituzionale e il vuoto narrativo

Sul fondo, ma non troppo, si staglia la figura di Pier Silvio Berlusconi. Amministratore delegato di Mediaset, rappresenta il livello istituzionale del potere mediatico. Le sue recenti dichiarazioni sulla necessità di ripensare i reality, di “evolverli” o metterli in pausa, assumono in questo contesto un peso specifico maggiore. Non sono solo scelte editoriali: sono segnali politici interni al sistema televisivo.

Il silenzio ufficiale, l’affidamento ai legali, la prudenza comunicativa sono comprensibili, ma lasciano un vuoto. E quando le istituzioni tacciono, il racconto passa di mano. Spesso finisce nelle mani di chi ha più interesse a incendiarlo che a chiarirlo.

Corona: inchiesta o vendetta?

Ed eccoci al punto più scomodo. Fabrizio Corona è legittimato a fare tutto questo? È questa la domanda che chiude — e allo stesso tempo apre — ogni riflessione seria su questa vicenda.

Da un lato, è innegabile che molte verità siano emerse storicamente grazie a figure esterne, scomode, irregolari. Il giornalismo d’inchiesta nasce anche dalla rottura delle regole, dal disturbare il potere, dal non chiedere permesso.

Dall’altro, però, un’inchiesta giornalistica si fonda su alcuni pilastri irrinunciabili: verifica delle fonti, contraddittorio, tutela dei soggetti coinvolti, distinzione netta tra fatti e interpretazioni. Falsissimo gioca su un altro terreno: quello della narrazione personalizzata, dove il racconto è costruito per massimizzare impatto emotivo, engagement, visibilità. Non è necessariamente falso — ma non è neutro.

C’è poi un elemento che non può essere ignorato: la storia personale di Corona con il sistema mediatico. Le ferite, le esclusioni, le vendette reali o percepite. È legittimo chiedersi se ciò che stiamo osservando sia un atto di denuncia o una resa dei conti. Se l’obiettivo sia la giustizia o il regolamento dei conti. Se la verità sia il fine o solo il mezzo.

Se, come osservato anche da Lucarelli, la scelta di mostrare certi materiali non aggiunge elementi sostanziali alla comprensione dei fatti, allora la loro esposizione non è informazione ma consumo. E il consumo dell’intimità altrui, soprattutto quando è sessualizzata e messa alla berlina, non è mai neutro. Non produce giustizia, produce assuefazione. Non chiarisce, eccita. Non tutela, espone.

Oltre il rumore

Il rischio più grande, oggi, è che il rumore copra tutto. Che le accuse perdano forza perché urlate troppo. Che le eventuali responsabilità si dissolvano in un mare di opinioni. E che, ancora una volta, chi aveva meno potere all’inizio del racconto ne abbia ancora meno alla fine.

La storia ci insegna che la verità ha bisogno di tempo, non di trending topic. Ha bisogno di rigore, non di spettacolo. E soprattutto ha bisogno di uno sguardo che sappia distinguere tra denuncia e linciaggio.

Perché se è vero che il potere va sempre interrogato, è altrettanto vero che la gogna non è giustizia.

E allora la domanda resta sospesa, inevitabile, scomoda:

Fabrizio Corona è legittimato a fare tutto questo?

Si può parlare di vera inchiesta giornalistica o siamo di fronte a una vendetta mediatica travestita da verità?

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