
Genova non si lascia amare subito. È ruvida, verticale, con il sale che graffia i muri e le ombre che disegnano geometrie improvvise. Una città che non concede, ma sfida. Forse per questo Mariangela Perrucci l’ha scelta – o meglio, l’ha affrontata. La sua fotografia nasce dal conflitto, non dalla compiacenza. È un gesto di contatto, di frizione, di rivelazione. Nelle sue immagini il corpo non è idea, è materia. Non posa: esiste. Si confronta con lo spazio come fosse un animale in ascolto, una presenza che non vuole essere decorazione ma dichiarazione.

Nata in Puglia, classe da non addomesticare, Mariangela Perrucci si è formata in un territorio che conosce bene la luce e il silenzio, la durezza della terra e la generosità del mare. Ha studiato fotografia con la stessa fame con cui si affrontano le necessità primarie, e ha costruito nel tempo un linguaggio visivo riconoscibile, ossuto, sensuale senza compiacenza. Nei suoi progetti si percepisce una ricerca costante sul corpo come archivio, come territorio politico, come superficie che trattiene memoria. La sua fotografia non consola, interroga. Non idealizza, ma espone.

Prima di Genova, un’altra città ha accolto il suo sguardo: Matera. Qui Perrucci ha partecipato alla sua prima mostra fotografica personale presso la Fondazione Monacelle che l’ha messa in dialogo con linguaggi contemporanei, inserendo le sue immagini in un contesto che da tempo riflette sul rapporto tra identità e paesaggio, tra architettura antica e presenza umana. A Matera, Mariangela ha portato lavori che parlano di carne e mura, di pelle come documento vivo. È stata una tappa importante, un primo banco di prova nazionale, un attraversamento che ha dimostrato la maturità del suo sguardo e la solidità del suo percorso.

Ogni progetto di Mariangela Perrucci respira lentezza e decisione insieme. Non cerca mai il colpo facile, la bellezza immediata, l’immagine che consola l’occhio. Predilige invece la costruzione lenta, quella che costringe chi guarda a fermarsi, a sostare, a interrogarsi. Le sue fotografie chiedono tempo, e nel tempo si aprono come ferite che non spaventano ma liberano. È qui che la sua poetica trova radici profonde: nella capacità di trasformare l’immagine in un luogo mentale, non solo visivo.

C’è una femminilità non addomesticata nel suo lavoro. Una corporeità che non si offre per essere giudicata, ma esige ascolto. Le sue modelle – o forse sarebbe più corretto dire presenze – non interpretano, incarnano. Ogni inquadratura sembra misurare il respiro, il peso, la temperatura del silenzio. In questa tensione tra vulnerabilità e potenza, Perrucci si muove con abilità sorprendente, come se la fotografia fosse per lei non un mezzo, ma un nervo scoperto da toccare senza paura.

Il rapporto tra corpo e spazio è la chiave della sua visione artistica. Non c’è mai ambientazione neutra: c’è dialogo, attrito, risposta. La città non fa da sfondo ma da controparte scenica, da luogo che sfianca e sostiene, che disorienta e rivela.
La fotografa è stata invitata dalla curatrice Elisabeth Vermeer a partecipare alla mostra “Alborada Nocturne” dedicata ai compositori Maurice Ravel e Eric Satie negli spazi dell’Alliance Française di Genova in Via Garibaldi 20. La mostra che rimane allestita fino al 31 gennaio 2026, è un affresco fotografico che interpreta certi episodi nella vita dei due celebri musicisti. Mariangela Perrucci ha voluto una donna al centro dell’attenzione, la modella e pittrice Suzanne Valadon. Con il suo trittico di fotografie Perrucci ha nobilitato Suzanne, per un breve tempo l’amante di Satie, che non è mai stata apprezzata dalla critica come lo avrebbe meritato.

A Genova questo movimento si fa più evidente, quasi per necessità. Le sue vie strette, i tagli di luce improvvisi, il mare che schiaccia e libera a seconda del vento: tutto diventa contesto emotivo e narrativo. È come se la città stessa posasse, vulnerabile e feroce accanto ai suoi soggetti.

Oggi il passo si allunga. Non è un’apparizione, è una presa di posizione. Perrucci porta in mostra una fotografia che non cerca consenso ma risonanza, che si radica nella carne e si dilata nello spazio. Ogni immagine è una fenditura, un varco. Ogni corpo fotografato diventa architettura emotiva e dichiarazione.

Mariangela Perrucci si conferma così una delle presenze emergenti più autorevoli della fotografia pugliese contemporanea, una voce che non si adagia ma avanza. Se Genova oggi la accoglie, è perché la sua visione non può più restare ai margini. E se c’è una cosa chiara, guardando il ritmo con cui procede, è che ci troveremo presto a parlarne ancora.
E ancora.
E ancora.




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