
Nel panorama scintillante e frenetico della Milano Fashion Week Women’s Collection SS 2026, Benedetta Bruzziches non ha sfilato: ha raccontato. Ha raccontato storie, visioni, identità. Non ha semplicemente presentato borse; ha dato loro voce, carne, anima. E lo ha fatto con quella grazia silenziosa e radicale che le appartiene, scegliendo ancora una volta di abitare il mondo della moda con lentezza, con consapevolezza, con la forza pacata di chi sa che il tempo non è un tiranno, ma un alleato quando si vuole dare sostanza alla forma.

In un tempo che sembra esigere definizioni rapide, trend istantanei e identità confezionate a stagione, Bruzziches continua a rifiutare la categorizzazione, proponendo invece un’estetica che nasce da un’urgenza diversa: quella di riconoscere nell’oggetto non solo un prodotto, ma una presenza. Ogni sua borsa porta un nome, e non si tratta mai di un’etichetta di marketing, ma di un gesto poetico, intimo, potente. Dare un nome significa riconoscere un’essenza, accogliere una complessità, assumersi la responsabilità di una narrazione.

Le borse di Benedetta Bruzziches non nascono da un moodboard, ma da un incontro — con una figura reale o immaginaria, con un ricordo, con un’idea di femminilità mai definitiva, sempre in movimento. Vitty, Mame, Elif, Amalia: ognuna di loro è una storia incarnata, un omaggio affettuoso e profondo a donne che hanno avuto il coraggio di essere, di sbagliare, di non farsi contenere. Dietro ogni modello, c’è una figura che abita con grazia e intensità i margini del canone, sovvertendolo dall’interno.

Così Vitty non è solo una borsa, ma un frammento di Monica Vitti: il sorriso disarmante, l’eleganza intellettuale, il desiderio struggente di andare oltre i ruoli imposti. Mame è un invito all’eccesso come forma di autenticità, un omaggio a chi ha fatto dell’irriverenza una missione esistenziale. Elif è un tuffo nei racconti sensuali e spirituali di Elif Shafak, tra spezie e identità intersezionali, mentre Amalia è la mano tesa verso l’infinito, la donna che ha guardato le stelle e scelto la rotta, sfidando il destino e le convenzioni.

Questo intreccio tra nome e oggetto, tra donna e forma, è il cuore pulsante dell’universo Bruzziches. Un universo che non si lascia irretire dalla velocità del mercato, ma che si nutre di tempo e di osservazione. Benedetta osserva le donne non per rappresentarle, ma per ascoltarle. Le ascolta nei loro silenzi, nei loro gesti, nelle fratture e nelle rinascite. E da quell’ascolto nascono oggetti che non vestono, ma accompagnano. Non decorano, ma raccontano.

Alla Milano Fashion Week, questa visione si è fatta rito. In uno spazio raccolto, lontano dall’euforia delle passerelle tradizionali, le borse hanno preso la parola attraverso le letture di Dominique Sighanda, artista e musicista la cui voce ha dato corpo ai nomi, trasformando l’oggetto in racconto. Non un evento, ma un momento di resistenza gentile, in cui la moda è tornata a dialogare con l’arte, con la letteratura, con la vita.

Perché è questo che Benedetta Bruzziches sembra sussurrare a chi la osserva: che ogni oggetto può contenere una visione del mondo. Che una borsa può essere un atto poetico. Che deviare dal sentiero tracciato — come lei stessa ha detto — non è una scelta ribelle, ma l’unico modo autentico di procedere. E che nel farlo, con grazia e intenzione, si può ancora portare bellezza dove non viene richiesta, profondità dove si attende solo apparenza.

In un’epoca in cui tutto sembra gridare, Benedetta Bruzziches sceglie di parlare piano. Ma è proprio nel suo sussurro che si nasconde la forza dirompente di chi ha qualcosa di vero da dire.




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